Borges e Musil, tra La battaglia di Maldon e L’uomo senza qualità
[Suggerimento musicale per la lettura: Mozart_Requiem]
“L’animo sia tanto più fermo,
il cuore più audace,
il coraggio tanto maggiore,
quanto più diminuiscono le nostre forze.”
La battaglia di Maldon, versi 312-316.
A Rue des Rois 10, a Ginevra, si trova il cimitero di Plainpalais.
Un largo tappeto verde sotto cui riposano uomini e donne lì sepolti grazie a qualcosa per cui si sono distinti.
I nomi illustri sono parecchi; tra gli altri: Denis de Rougemont, Piaget, Calvino, la figlia di Dostoevskij e Griselidis Real la cui tomba vince il mio premio personale di “miglior epitaffio di sempre”:
“Scrittrice, pittrice, prostituta”.
Amen, sorella.
Ci sarebbe molto da scrivere su ognuno di questi signori, purtuttavia solo su due io voglio soffermarmi.
Il primo è Borges.
Alla tomba numero 735 riposa il grandissimo maestro, che visse a Ginevra quattro anni tra il 1914 e il 1918 durante la sua adolescenza e che ivi tornò in tarda età per curare alcuni problemi di salute.
Sulla pietra tombale era stato deposto appena qualche giorno prima un mazzo di fiori, accompagnato da un biglietto con su scritto da mano anonima la parola “Maestro” sotto la data.
Sulla lapide, in alto, l’incisione con il nome: Jorge Luis Borges.
Più in basso la frase in antico inglese: “And ne forhtedon na” (Giammai con timore), estratta dal poema epico del X secolo (circa) “La battaglia di Maldon.”
Più sotto ancora un bassorilievo con sette guerrieri, spade sguainate, in procinto di buttarsi in combattimento.
Sotto di essi, vicino alla data di nascita e di morte 1899/1986, una piccola croce del Galles.
Nella parte posteriore sono riportati due versi della Saga di Völsunga, XIII secolo: “Hann tekr sverthit Gram okk legger i methal theira bert” (Egli prese la sua spada, Gram, e pose il nudo metallo tra i due).
Sotto di essi, come noterete dalla foto, una incisione di un drakkar vichingo.
Sotto il drakkar, la scritta: “De Ulrica a Javier Otalora“, due personaggi dei racconti borgesiani. Un saluto privato, a quanto pare, di Marìa Kodama, sua ex-alunna che divenne sua segretaria e, a poche settimane dalla morte, sua seconda moglie.
La battaglia di Maldon è un poema breve in cui si descrive la sconfitta del conte Byrhtnoth (Beorhtnoth secondo Tolkien), capo di un manipolo di guerrieri inglesi uccisi nel 991 a Maldon, appunto, durante la difesa della piccola cittadina nella contea dell’Essex da una aggressione scandinava guidata da Olaf Tryggvason, bisnipote di quell’ Harald Bellachioma che fu primo re di Norvegia.
Non si conosce il nome dell’autore né il periodo esatto di creazione (probabilmente intorno all’anno mille) e soprattutto non si conosce l’inizio né la fine del componimento poetico perché il foglio esterno che lo racchiudeva è andato perduto. Il testo è stato a lungo studiato sia da Borges che da Tolkien, che ne riscrivono, in modi assai divergenti, un epilogo.
Lo scritto originale ci dice che Byrhtnoth concesse (Dio solo sa perché) ai nemici di guadare il fiume accordando loro il vantaggio strategico di una battaglia in campo aperto. Il poema dice anche che lo fece perché i nemici, questa orda di selvaggi e terribili vichinghi, gli chiesero di comportarsi in modo “cavalleresco” e rinunciare al suo vantaggio in favore di una battaglia alla pari.
Ovviamente vinsero i norvegesi.
Il conte morì in battaglia e questo causò la fuga di una parte dell’esercito inglese mentre l’altra metà rimase a farsi uccidere restando a protezione del corpo del cadavere del loro signore, poiché l’ideale guerriero germanico imponeva che nessun valoroso poteva sopravvivere alla morte del proprio comandante.
La poesia/racconto breve di Borges, che si trova nella raccolta “La moneta di ferro”, ci mostra un “esercito” inglese composto da contadini e marinai poco avvezzi all’uso della spada che resistono con le unghie e con i denti ai terribili (e imbattibili) vichinghi.
Nell’interpretazione di Borges, i guerrieri inglesi affrontano il nemico consapevoli della propria sconfitta e il narratore della storia, il vecchio Aidan, raccomanda ai superstiti radunatisi ai margini di una fitta boscaglia (quella metà non fuggita via a gambe levate), di continuare a combattere nonostante tutto, proprio perché nessuno di loro può sopravvivere alla morte del proprio signore, in accordo all’ideale eroico germanico.
Come ci si aspetta da ogni eroe degno di questo nome, insomma: mai indietreggiare nemmeno davanti alla morte.
Da opposto versante parte l’interpretazione di Tolkien, che potrei definire speculare. Il professore inglese ne fa una questione di traduzione errata di un termine, esattamente dei versi 89-90:
“Allora il Conte,
mosso dall’orgoglio,
concesse fin troppo terreno
a quel popolo odioso”.
Il termine “orgoglio” nell’originale antico anglosassone è ofermod, e venne tradotto con il moderno overboldness, ovvero “audacia” o “spavalderia”: due termini che in italiano hanno accezioni decisamente differenti del medesimo concetto.
Su questa ambiguità si scagliò Tolkien, ritraducendo ofermod con overmastering pride, ovvero “smisurato orgoglio”, scegliendo in modo definitivo l’accezione meno eroica delle due.
In breve: secondo il professore l’errore fu del conte che, tutto preso da se stesso, non considerò con sufficiente cognizione la difficile situazione militare, condannando dunque a morte certa i suoi uomini.
Nello stesso saggio edito da Bompiani e curato da Wu Ming 4 “Il ritorno di Beorhtnoth figlio di Beorhthelm” figura un articolo monografico di Tom Shippey, il più grande studioso ed esperto di Tolkien, che rifiuta in modo categorico l’interpretazione filologica tolkieniana.
(A chi nutra interesse per le opere di Tolkien, segnalo l’ottimo sito della ArsT: Associazione romana studi Tolkieniani)
Come sia andata davvero, lo sanno solamente coloro che più non possono svelarcelo, ma anche per questo poema vale la regola che accompagna ogni testo letterario: esso è ciò che noi crediamo che esso sia.
Per Borges, che riposa sul quel prato curato e silenzioso, è l’emblema di coloro che restarono fedeli ai propri ideali nonostante l’amaro prezzo da pagare; esattamente come lui, al quale venne negato il premio Nobel per la fedeltà alle proprie idee conservatrici, tradizionali e filo-occidentali.
Pare che quando gli venne confidato che il premio era già nella sua tasca se solo avesse rinunciato a un viaggio in Cile (per conferenze e per ritirare una delle 23 lauree honoris causa assegnategli durante tutto l’arco della sua vita), rispose che allora partire sarebbe stata un’ottima idea.
Questo dimostra una volta di più che l’ambìto premio viene assegnato per motivi politici e (quasi) mai per esclusivo merito.
Per me, per quanto io possa valere, egli è stato uno dei più grandi scrittori del XX secolo, con o senza premio Nobel.
Riposa in pace, maestro.
Il secondo è Musil.
La sua pietra tombale è composta da due parallelepipedi affiancati. Sul più alto il suo volto scolpito ad opera di Bernard Bavaud, sul più basso una targa:
“Ingegnere, scrittore, saggista e drammaturgo austriaco, vissuto a Ginevra da luglio 1939 ad aprile 1942”.
Più in basso una citazione da L’uomo senza qualità:
“se esiste un senso della realtà, allora ci dev’essere anche il senso della possibilità.”
Ammetto di non essere riuscita a digerire quello che è stato considerato il suo capolavoro (incompiuto), e di averlo abbandonato al primo volume. Il romanzo “L’uomo senza qualità”, interrotto al cap. 38 della terza parte, vuole essere (tra le altre cose) la sua personale critica alla società moderna.
Iniziato negli anni venti, ci lavorò fino alla fine dei suoi giorni non riuscendo a portarlo tuttavia a termine. Il primo volume ebbe un successo enorme. L’ultima parte fu pubblicata dalla sua vedova a proprie spese: quattordici capitoli (forse) conclusi e altre informazioni in forme di bozze.
Il romanzo è un labirinto, un viaggio nella sua mente di cui sfugge la trama e il senso ultimo, resi ancor più inafferrabili dalla sua tecnica espressiva.
Quest’opera paragonabile all’Ulisse di Joyce e Alla ricerca del tempo perduto di Proust, purtuttavia se ne discosta per via della fredda e distaccata analisi.
Sarà che non leggo mai i libri di Joyce dopo aver pranzato (il flusso di coscienza richiede tutta la mia attenzione) né quelli di Proust in primavera (il suo stile mi fa aumentare l’orticaria allergica), Musil non mi ha mai trasmesso qualcosa su cui poter tornare successivamente con il pensiero.
Nemmeno lavando i piatti o spazzando il pavimento, ovvero quando lo stato di concentrazione è massimo.
Unica eccezione “I turbamenti del giovane Törless”, romanzo di formazione non convenzionale, in cui il protagonista, il giovane cadetto omonimo, vive una tensione tutta interiore tesa al raggiungimento di equilibrio psicologico attraversato da dubbi sulla sessualità (avrà anche lui un rapporto omosessuale con un compagno di classe costretto da un ricatto ad opera di altri due compagni) e sulla morale come concetto che permea l’individuo nella società.
Un romanzo che mi piacque abbastanza, senza diventare per me pietra miliare: forse perché letto ormai in età adulta.
O forse per un eccessivo svilimento della vittima che, con ogni probabilità, non vessata a sufficienza, lo scrittore vuole anche compiacente e masochista.
Musil, a quanto è riportato nel diario, risultava antipatico e scontroso (nonché fortemente disadattato), ma questo poco ha a che fare con il suo lavoro.
Forse.
O forse no.
Ciò che rimane con certezza è il suo grande contributo alla letteratura mondiale e, benché personalmente non lo apprezzi, non posso negarne la grandezza e non sorridere, rispondendo a me stessa con le sue parole incredibilmente evocative: “Chi voglia varcare senza inconvenienti una porta aperta deve tener presente che gli stipiti sono duri.”.