La distopia siamo “Noi”
[Suggerimento musicale per la lettura: Mad Max: Fury Road]
E la popolazione raddoppia, e raddoppia ancora, e continua a raddoppiare.
Sempre più velocemente.
La gente è una epidemia, un flagello che infesta il mondo.
Harry Harrison, “Largo! Largo!”
Come scrive Alberto Grandi, in un articolo riportato sul sito Wired e pubblicato in origine su Penne Matte, il genere distopico contemporaneo “manca” alcune occasioni di denuncia sociale.
I romanzi distopici contemporanei noti al grande pubblico non approfondiscono, non denunciano, non approfittano del successo per denunciare un pericolo nascosto già in potenza, come seme, all’interno dei nostri sistemi sociali.
Alberto cita viceversa Orwell, “1984” e Golding, “Il Signore delle mosche”, a esempio di distopici di denuncia sociale.
Ho letto l’articolo con molto interesse, e concordo con il principio di massima secondo il quale l’opera letteraria debba (almeno provare a) raggiungere il lettore a un certo livello di profondità. Credo tuttavia che la distopia classica sia un genere superato.
La distopia a cui si fa riferimento in quell’articolo, quella di denuncia, di allerta e previsione, quella che fa emergere le contraddizioni sociali presenti che potrebbero condurre a un universo indesiderato, ha avuto un valore in certi periodi storici. Oggi noi già ci troviamo in quel futuro da cui quegli scrittori ci mettevano in guardia.
La distopia è già la società in cui noi viviamo e gli autori distopici di oggi, più che prevedere il futuro, descrivono metaforicamente il presente.
La distopia è qui, nel mondo, in alcuni suoi tratti evidenti (l’isolamento dei social network, i temi della bioetica, il crollo dello Stato Sociale, la guerra globale permanente, i grandi flussi migratori verso l’Occidente) e nell’immaginario dei lettori.
Ma non è questo il motivo per cui tali temi, nelle tre opere citate da Alberto Grandi (“Divergent”, “Hunger games”, “Maze Runner”) non sono approfonditi, né esplorati, né posti a obiettivo principale del messaggio da trasmettere. In Maze Runner il tema della denuncia è completamente assente, negli altri presente, ma non è il focus, e qui concordo con Alberto, ma il motivo è una scelta commerciale: le opere citate sono degli young adult.
Infatti non tutta la distopia contemporanea, che pure non regge il confronto della propria capacità di previsione rispetto a quella passata, evita di denunciare socialmente: si pensi alla serie Black Mirror. Qui la denuncia è massima: le contraddizioni dell’era moderna si intersecano fra loro ed esasperano in una denuncia fortissima.
In altri termini, quello che secondo me è lo iato incolmabile fra distopia passata e presente non è la mancanza di denuncia, bensì la sostituzione della previsione con la descrizione. Tanto per fare un esempio, qualche tempo fa la testata “The Intercept”[1] ha pubblicato un video dal titolo “Megacities: Urban Future, the emerging complexity” che sembra uscito da un’opera di fantasia. Invece, è parte del materiale didattico che la Joint Special Operation University del Pentagono distribuisce ai suoi allievi. In altre parole, è la realizzazione molto vicina di una distopia reale, tangibile, che i militari statunitensi usano già per la loro formazione interna. È la costruzione di una società militarizzata e ottimizzata a gestire lo scenario tattico di una megalopoli moderna.
Come scrive in questo articolo per Tom’s Hardware Italia Valerio Porcu “Il video inanella una serie di minacce terribili: reti criminali, infrastrutture sotto gli standard, tensioni etniche e religiose, povertà, bassifondi, fognature sovraccariche, una crescente massa di disoccupati e così via. Non mancano estesi labirinti sotterranei e aree con un proprio governo indipendente da quello ufficiale. Un contesto nel quale la minaccia informatica ha un ruolo centrale, con ‘gli hacker’ in grado di colpire infrastrutture sensibili dove e quando vogliono. Tutto concentrato in un fazzoletto di terra altamente popolato.”
E poi ancora “Un altro documento riporta invece come ‘l’esercito US è incapace di operare all’interno della megacittà’. Esiste infatti un programma chiamato Thunderdom Spiral, che dovrebbe servire appunto a trovare nuove idee per affrontare la questione.”
Un portavoce dell’esercito ha affermato che il video si basa su Megacities and The United States Army, che di fantasioso ha poco o nulla.
Inquinamento, crisi energetica, dittatura militare non sono scenari di fantasia.
La distopia è già in essere, ed è sotto gli occhi di tutti. È invisibile, e perciò tanto più pericolosa, perché a differenza di quanto scrivevano i romanzieri di inizio secolo, essa non è totalizzante. Non c’è un nemico definito contro cui scagliarsi.
Il nemico è il sistema stesso.
Orwell metteva in guardia l’umanità dall’impoverimento del linguaggio, dal pensiero non articolato in forme corrette. La Neolingua consiste nell’eliminare parole dal vocabolario, nel ridurle, contrarle. Semplificarle.
La Neolingua non è forse il linguaggio da sms, l’abuso delle k, degli acronimi, degli slang e delle frasi-tormentone da hashtag? quante parole permette di scrivere Twitter?
L’uso di un vocabolario ristretto coincide con un pensiero ristretto. E, come in ogni distopia che si rispetti, una modalità di pensiero rattrappita è conditio sine qua non della manipolazione di chi quel pensiero lo mantiene ampio, attraverso un uso sapiente ma disonesto del linguaggio.
In altri termini, si dovrebbe cercare di superare la definizione della fantascienza distopica come letteratura di anticipazione: ai nostri giorni essa è, piuttosto, una cornice, quasi accessoria, entro la quale rappresentare i contenuti principali.
In questi sistemi dis-integrati, dove la maggioranza delle persone non è motivata ad agire in conformità alle aspettative connesse a un ruolo, le sfide che i personaggi affrontano sono il cuore della narrazione, e non mero pretesto per la descrizione di un mondo probabile.
Se poi essi riusciranno a maturare dal punto di vista psicologico e affettivo, evolvendo verso la promozione dell’integrazione sociale, o si muoveranno verso una conquista interiore del tutto personale e a-sociale, è scelta di ogni scrittore.
A differenza del anni in cui Orwell e Golding pubblicavano i loro manoscritti, adesso l’informazione è facilmente accessibile a tutto il mondo occidentale.
Basta saper cercare, cliccare, distinguere, filtrare.
Ma ne siamo davvero in grado?
Nel mare magnum della rete e nella pluralità delle informazioni, l’attendibilità della fonte dovrebbe essere un criterio imprescindibile.
Quasi mai rispettato.
Laddove Huxley ne “Il Mondo Nuovo” sosteneva che il potere sarebbe dovuto essere esercitato sì per l’eliminazione della libertà ma solamente quale mero strumento di garanzia per la felicità umana, Orwell sottolineava come chiunque eserciti il potere lo faccia solo per se stesso. La vera natura del potere è il potere: “Il fine della persecuzione è la persecuzione. Il fine della tortura è la tortura. Il fine del potere è il potere. Cominci a capirmi ora?”[2]
Erich Fromm, nel suo saggio “Fuga dalla libertà”[3] scrive che: “l’uomo d’oggi ha raggiunto la libertà, ma non riesce a usarla per realizzare completamente se stesso, anzi, la libertà sembra averlo reso fragile e impotente”. E poi ancora: “Pur avendogli portato indipendenza e razionalità, la libertà ha reso [l’essere umano] isolato e, pertanto, ansioso e impotente. Questo isolamento è intollerabile e l’alternativa che gli si presenta è la seguente: o sfuggire dal peso di questa libertà verso nuove dipendenze e sottomissioni, o progredire verso la piena realizzazione della libertà positiva che si fonda sull’unicità e l’individualità dell’uomo”
E fin qui, tutto bene, se non fosse che “libertà” è un termine abusato. Siamo davvero liberi quando scegliamo, pensiamo, agiamo? Quali condizionamenti determinano i molteplici aspetti della nostra personalità?
La risposta arriva al settimo capitolo, quando Fromm mette in guardia l’uomo dalla “illusione della libertà”. Lo sviluppo di una personalità individuale è ostacolato dal fatto che la coscienza dell’uomo moderno occidentale non è né governata da una autorità esterna, né da una interiorizzata, ma da quella che lui chiama “autorità anonima” che “ha assunto le sembianze del senso comune, della scienza, della sanità psichica, della normalità, dell’opinione pubblica. Non pretende nulla, se non ciò che è di per sé evidente.”
Le bufale condivise da migliaia di disinformati, i botta e risposta infiniti sui commenti di Facebook, i commenti scandalizzati ai finti articoli del giornale on line Lercio, le sentenze vomitate sotto i video di Youtube, i post virali di notizie scandalistiche, insomma: tutto il coarcevo di interazioni social, non sono forse fattispecie di quell’autorità anonima alla quale si riferisce Fromm?
È già lei che decide per noi.
Quale libertà è dunque possibile per un uomo del genere?
Quell’uomo, non è un personaggio di un’opera distopica.
Quell’uomo, siamo Noi.[4]
[1] The Intercept è un sito diretto dall’ex giornalista del Guardian Glenn Greenwald, noto per aver organizzato la pubblicazione dei documenti che Edward Snowden, collaboratore della National Security Agency, ha sottratto al governo degli Stati Uniti.
[2] George Orwell, 1984, Mondadori, 2002
[3]Erich Fromm, Fuga dalla libertà, Mondadori, 1994
[4] Evgenij Ivanovič Zamjatin, Noi, Lupetti, 2007
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Fornisci il tuo contributo!