Presentazione del romanzo a Potenza
Giovedì 22 dicembre, alle 17:00, presento il mio romanzo d’esordio a Potenza.
Sarò molto felice di rispondere alle domande e alle curiosità di chi vorrà raggiungermi.
La scrittura è un muro a secco: parola di Neil Gaiman
[Suggerimento musicale per la lettura: Led Zeppelin: Stairway to Heaven]
“Uno scrittore professionista
è un dilettante
che non ha mai mollato”
Richard Bach
Siamo a Novembre, tempo di NaNoWriMo.
Come l’anno scorso, anche quest’anno mi sono buttata nella kermesse internazionale.
Rispetto all’anno scorso, però, il mio Guardiano della Soglia è meno agguerrito. Abbiamo imparato a conoscerci meglio, noi due.
Di tanto in tanto ci prova ancora a dissuadermi mordendomi, ma non ci faccio più tanto caso. Lo so che mi vuole bene: è come un cucciolo di drago che involontariamente mi graffia giocando.
Non è cattivo. È la sua natura.
Scrivere, è la mia.
In questo articolo, però, non voglio parlare del NaNo.
Desidero parlare di scrittura, ed esattamente di un momento particolare della scrittura che in un altro articolo, mutuando un termine dal processo alchemico, ho chiamato “Opera al Nero“.
Avviene nel bel mezzo della prima stesura, quando oscillo tra portare a termine il romanzo e la voglia di gettare tutto ed emigrare in un altro Stato.
Qui di seguito riporto un consiglio, utilissimo quando mi trovo su quella sottile linea di confine, dato da uno degli autori che ne fornisce di migliori.
Si tratta di Neil Gaiman.
Il pezzo originale l’ho trovato qui, sul sito del contest NaNoWriMo, e l’ho tradotto.
Anche lui è un Membro della Gilda delle Mani Inchiostrate, un veterano. Perciò vale la pena dargli ascolto.
Spero che non ci siano errori troppo vistosi nella traduzione di una lettera che, a mio avviso, coglie completamente non una, ma la difficoltà dello scrittore.
Io la trovo molto vera, ed è ciò che accade anche a me.
Leggerla mi conforta.
Mi auguro che funzioni così anche per te.
“Caro Autore NaNoWriMo,
ormai sei probabilmente pronto a rinunciare. È passato quel primo, splendido rapimento furioso quando ogni personaggio e idea sono nuovi e divertenti. Non sei ancora in quella epocale parabola discendente, quando parole e immagini capitombolano fuori dalla testa a volte più velocemente di quante puoi trattenerne sulla carta.
Sei nel mezzo, un po’ oltre il punto a metà strada. Il fascino è svanito, la magia è andata, la tua schiena fa male per il troppo digitare, la tua famiglia, amici ed e-mail casuali di conoscenti sono passate dall’essere di incoraggiamento o almeno di accettazione al lamentarsi che non ti vedono più – e che anche quando lo fanno – che sei preoccupato e per niente divertente.
Non sai perché hai iniziato il tuo romanzo, non ricordi più perché hai immaginato che qualcuno vorrebbe leggerlo, e sei abbastanza sicuro che anche se lo finisci non sarà valsa la pena, il tempo o l’energia, e ogni volta che ti fermi abbastanza a lungo da confrontarlo con la cosa che avevi in testa quando hai cominciato – uno scintillante, brillante, meraviglioso romanzo, in cui ogni parola sputa fuoco e brucia, un libro così buono o migliore del miglior libro che tu abbia mai letto – è così dolorosamente inadeguato che sei abbastanza sicuro che sarebbe un atto di misericordia semplicemente cancellare l’intera faccenda.
Benvenuto nel club.
È così che i romanzi vengono scritti.
Tu scrivi. Quella è la parte dura che nessuno vede. Scrivi nei giorni buoni e scrivi nei giorni schifosi. Come uno squalo, devi continuare a muoverti in avanti o muori. La scrittura può essere o no la tua salvezza; potrebbe o essere o no il tuo destino. Ma questo non importa. Ciò che conta in questo momento sono le parole, una dopo l’altra. Cercare la parola successiva. Scriverla. Ripetere. Ripetere. Ripetere.
Un muro di pietre a secco è una bella cosa quando vedi che delimita un campo nel bel mezzo del nulla, ma diventa ancora più impressionante quando ti rendi conto che è stato costruito senza malta, che il costruttore necessitava di scegliere ogni pietra ad incastro e inserirla. Scrivere è come costruire un muro. È una continua ricerca della parola che si adatta al testo, alla tua mente, alla pagina. Trama e carattere e metafora e stile, tutto questo diventa secondario alle parole. Il costruttore di parete erige la sua parete una pietra alla volta finché raggiunge il fondo del campo.
Se non lo costruisce non ci sarà. Così lui guarda in basso il suo mucchio di rocce, prende quella che meglio si adatta al suo scopo, e la inserisce.
La ricerca della parola non si ottiene facilmente, ma nessun altro scriverà il tuo romanzo per te.
L’ultimo romanzo che ho scritto (era i ragazzi di ANANSI, nel caso te lo stia chiedendo) quando ero a tre quarti del percorso, chiamai il mio agente. Le dissi quanto mi sentissi stupido a scrivere qualcosa che nessuno avrebbe voluto leggere mai, quanto inconsistenti fossero i personaggi, quanto inutile la trama.
Ho fortemente suggerito che ero pronto ad abbandonare questo libro e scrivere piuttosto qualcosa di diverso, o forse avrei potuto abbandonare il libro e intraprendere una nuova vita come giardiniere di giardini all’inglese, rapinatore di banche, cuoco o biologo marino. E invece di simpatizzare o concordare con me, o spingermi in avanti con un’ondata di entusiasmo — o anche litigare con me — disse semplicemente, sospettosamente allegra, “Oh, sei a quella parte del libro, vero?”
Ne fui scioccato. “Vuoi dire che l’ho già fatto prima?”
“Non ti ricordi?”
“Non proprio.”
“Oh sì,” ha detto. “Lo fai ogni volta che scrivi un romanzo. Ma fanno così anche tutti gli altri miei clienti”.
Non ero nemmeno unico nella mia disperazione.
Così misi giù il telefono e mi portai fino alla caffetteria in cui stavo scrivendo il libro, riempii la mia penna e continuai a scrivere.
Una parola dopo l’altra.
Questo è l’unico modo in cui i romanzi vengono scritti e, a meno di elfi che arrivano durante la notte e trasformano le tue note confuse in Capitolo Nove, è l’unico modo per farlo.
Quindi continua a perseverare. Scrivi un’altra parola e quindi un’altra.
Molto presto sarai nella parabola discendente, e non è escluso che presto sarai alla fine.
Buona Fortuna…
Neil Gaiman”
Buona scrittura a tutti, una parola dopo l’altra.
La distopia siamo “Noi”
[Suggerimento musicale per la lettura: Mad Max: Fury Road]
E la popolazione raddoppia, e raddoppia ancora, e continua a raddoppiare.
Sempre più velocemente.
La gente è una epidemia, un flagello che infesta il mondo.
Harry Harrison, “Largo! Largo!”
Come scrive Alberto Grandi, in un articolo riportato sul sito Wired e pubblicato in origine su Penne Matte, il genere distopico contemporaneo “manca” alcune occasioni di denuncia sociale.
I romanzi distopici contemporanei noti al grande pubblico non approfondiscono, non denunciano, non approfittano del successo per denunciare un pericolo nascosto già in potenza, come seme, all’interno dei nostri sistemi sociali.
Alberto cita viceversa Orwell, “1984” e Golding, “Il Signore delle mosche”, a esempio di distopici di denuncia sociale.
Ho letto l’articolo con molto interesse, e concordo con il principio di massima secondo il quale l’opera letteraria debba (almeno provare a) raggiungere il lettore a un certo livello di profondità. Credo tuttavia che la distopia classica sia un genere superato.
La distopia a cui si fa riferimento in quell’articolo, quella di denuncia, di allerta e previsione, quella che fa emergere le contraddizioni sociali presenti che potrebbero condurre a un universo indesiderato, ha avuto un valore in certi periodi storici. Oggi noi già ci troviamo in quel futuro da cui quegli scrittori ci mettevano in guardia.
La distopia è già la società in cui noi viviamo e gli autori distopici di oggi, più che prevedere il futuro, descrivono metaforicamente il presente.
La distopia è qui, nel mondo, in alcuni suoi tratti evidenti (l’isolamento dei social network, i temi della bioetica, il crollo dello Stato Sociale, la guerra globale permanente, i grandi flussi migratori verso l’Occidente) e nell’immaginario dei lettori.
Ma non è questo il motivo per cui tali temi, nelle tre opere citate da Alberto Grandi (“Divergent”, “Hunger games”, “Maze Runner”) non sono approfonditi, né esplorati, né posti a obiettivo principale del messaggio da trasmettere. In Maze Runner il tema della denuncia è completamente assente, negli altri presente, ma non è il focus, e qui concordo con Alberto, ma il motivo è una scelta commerciale: le opere citate sono degli young adult.
Infatti non tutta la distopia contemporanea, che pure non regge il confronto della propria capacità di previsione rispetto a quella passata, evita di denunciare socialmente: si pensi alla serie Black Mirror. Qui la denuncia è massima: le contraddizioni dell’era moderna si intersecano fra loro ed esasperano in una denuncia fortissima.
In altri termini, quello che secondo me è lo iato incolmabile fra distopia passata e presente non è la mancanza di denuncia, bensì la sostituzione della previsione con la descrizione. Tanto per fare un esempio, qualche tempo fa la testata “The Intercept”[1] ha pubblicato un video dal titolo “Megacities: Urban Future, the emerging complexity” che sembra uscito da un’opera di fantasia. Invece, è parte del materiale didattico che la Joint Special Operation University del Pentagono distribuisce ai suoi allievi. In altre parole, è la realizzazione molto vicina di una distopia reale, tangibile, che i militari statunitensi usano già per la loro formazione interna. È la costruzione di una società militarizzata e ottimizzata a gestire lo scenario tattico di una megalopoli moderna.
Come scrive in questo articolo per Tom’s Hardware Italia Valerio Porcu “Il video inanella una serie di minacce terribili: reti criminali, infrastrutture sotto gli standard, tensioni etniche e religiose, povertà, bassifondi, fognature sovraccariche, una crescente massa di disoccupati e così via. Non mancano estesi labirinti sotterranei e aree con un proprio governo indipendente da quello ufficiale. Un contesto nel quale la minaccia informatica ha un ruolo centrale, con ‘gli hacker’ in grado di colpire infrastrutture sensibili dove e quando vogliono. Tutto concentrato in un fazzoletto di terra altamente popolato.”
E poi ancora “Un altro documento riporta invece come ‘l’esercito US è incapace di operare all’interno della megacittà’. Esiste infatti un programma chiamato Thunderdom Spiral, che dovrebbe servire appunto a trovare nuove idee per affrontare la questione.”
Un portavoce dell’esercito ha affermato che il video si basa su Megacities and The United States Army, che di fantasioso ha poco o nulla.
Inquinamento, crisi energetica, dittatura militare non sono scenari di fantasia.
La distopia è già in essere, ed è sotto gli occhi di tutti. È invisibile, e perciò tanto più pericolosa, perché a differenza di quanto scrivevano i romanzieri di inizio secolo, essa non è totalizzante. Non c’è un nemico definito contro cui scagliarsi.
Il nemico è il sistema stesso.
Orwell metteva in guardia l’umanità dall’impoverimento del linguaggio, dal pensiero non articolato in forme corrette. La Neolingua consiste nell’eliminare parole dal vocabolario, nel ridurle, contrarle. Semplificarle.
La Neolingua non è forse il linguaggio da sms, l’abuso delle k, degli acronimi, degli slang e delle frasi-tormentone da hashtag? quante parole permette di scrivere Twitter?
L’uso di un vocabolario ristretto coincide con un pensiero ristretto. E, come in ogni distopia che si rispetti, una modalità di pensiero rattrappita è conditio sine qua non della manipolazione di chi quel pensiero lo mantiene ampio, attraverso un uso sapiente ma disonesto del linguaggio.
In altri termini, si dovrebbe cercare di superare la definizione della fantascienza distopica come letteratura di anticipazione: ai nostri giorni essa è, piuttosto, una cornice, quasi accessoria, entro la quale rappresentare i contenuti principali.
In questi sistemi dis-integrati, dove la maggioranza delle persone non è motivata ad agire in conformità alle aspettative connesse a un ruolo, le sfide che i personaggi affrontano sono il cuore della narrazione, e non mero pretesto per la descrizione di un mondo probabile.
Se poi essi riusciranno a maturare dal punto di vista psicologico e affettivo, evolvendo verso la promozione dell’integrazione sociale, o si muoveranno verso una conquista interiore del tutto personale e a-sociale, è scelta di ogni scrittore.
A differenza del anni in cui Orwell e Golding pubblicavano i loro manoscritti, adesso l’informazione è facilmente accessibile a tutto il mondo occidentale.
Basta saper cercare, cliccare, distinguere, filtrare.
Ma ne siamo davvero in grado?
Nel mare magnum della rete e nella pluralità delle informazioni, l’attendibilità della fonte dovrebbe essere un criterio imprescindibile.
Quasi mai rispettato.
Laddove Huxley ne “Il Mondo Nuovo” sosteneva che il potere sarebbe dovuto essere esercitato sì per l’eliminazione della libertà ma solamente quale mero strumento di garanzia per la felicità umana, Orwell sottolineava come chiunque eserciti il potere lo faccia solo per se stesso. La vera natura del potere è il potere: “Il fine della persecuzione è la persecuzione. Il fine della tortura è la tortura. Il fine del potere è il potere. Cominci a capirmi ora?”[2]
Erich Fromm, nel suo saggio “Fuga dalla libertà”[3] scrive che: “l’uomo d’oggi ha raggiunto la libertà, ma non riesce a usarla per realizzare completamente se stesso, anzi, la libertà sembra averlo reso fragile e impotente”. E poi ancora: “Pur avendogli portato indipendenza e razionalità, la libertà ha reso [l’essere umano] isolato e, pertanto, ansioso e impotente. Questo isolamento è intollerabile e l’alternativa che gli si presenta è la seguente: o sfuggire dal peso di questa libertà verso nuove dipendenze e sottomissioni, o progredire verso la piena realizzazione della libertà positiva che si fonda sull’unicità e l’individualità dell’uomo”
E fin qui, tutto bene, se non fosse che “libertà” è un termine abusato. Siamo davvero liberi quando scegliamo, pensiamo, agiamo? Quali condizionamenti determinano i molteplici aspetti della nostra personalità?
La risposta arriva al settimo capitolo, quando Fromm mette in guardia l’uomo dalla “illusione della libertà”. Lo sviluppo di una personalità individuale è ostacolato dal fatto che la coscienza dell’uomo moderno occidentale non è né governata da una autorità esterna, né da una interiorizzata, ma da quella che lui chiama “autorità anonima” che “ha assunto le sembianze del senso comune, della scienza, della sanità psichica, della normalità, dell’opinione pubblica. Non pretende nulla, se non ciò che è di per sé evidente.”
Le bufale condivise da migliaia di disinformati, i botta e risposta infiniti sui commenti di Facebook, i commenti scandalizzati ai finti articoli del giornale on line Lercio, le sentenze vomitate sotto i video di Youtube, i post virali di notizie scandalistiche, insomma: tutto il coarcevo di interazioni social, non sono forse fattispecie di quell’autorità anonima alla quale si riferisce Fromm?
È già lei che decide per noi.
Quale libertà è dunque possibile per un uomo del genere?
Quell’uomo, non è un personaggio di un’opera distopica.
Quell’uomo, siamo Noi.[4]
[1] The Intercept è un sito diretto dall’ex giornalista del Guardian Glenn Greenwald, noto per aver organizzato la pubblicazione dei documenti che Edward Snowden, collaboratore della National Security Agency, ha sottratto al governo degli Stati Uniti.
[2] George Orwell, 1984, Mondadori, 2002
[3]Erich Fromm, Fuga dalla libertà, Mondadori, 1994
[4] Evgenij Ivanovič Zamjatin, Noi, Lupetti, 2007
La dieta mediatica – o del perché non rispondo subito ai messaggi
[Suggerimento musicale per la lettura: Eddie Vedder – Society]
Niente ci appartiene, Lucilio,
solo il tempo è nostro.
Seneca, Lettere a Lucilio.
Mi reputo una persona estremamente socievole.
Mi piace il contatto sociale, ho il privilegio di contare tra le centinaia di buoni conoscenti un nutrito nugolo di amici straordinari, che valgono per me come una famiglia allargata.
Mi piace uscire, vedere gente, fare cose nuove.
Poi, c’è il rovescio della medaglia.
Capitano dei periodi in cui il blocco creativo mi investe e mi sento sterile. “Il pozzo” è vuoto.
Mi sento confusa, dormo male, i giorni si susseguono piatti e gli obiettivi che mi sono prefissata appena qualche tempo prima mi appaiono logorati, sfilacciati, consunti. Iniziano a ingiallire.
In quei momenti ho bisogno di ritrovare un centro, e rinnovare il patto implicito stretto con me stessa per riprendere la strada che ho deciso di percorrere.
Sì, tutto bello, ma come?
La risposta, per me, è la solitudine.
Quando tutto intorno e dentro di me è confusione e rumore, ho bisogno di chiudere la porta della mia anima, e fare silenzio.
In questa società in cui rimanere da soli a casa non è sufficiente per creare il vuoto, costantemente riempito da messaggeria istantanea e notifiche social, l’unico modo che conosco è fare una “dieta mediatica”.
Ogni due-tre mesi di abbuffate di informazioni, che ingolfano il quotidiano moderno e che spesso non aggiungono valore al mio tempo, faccio un mese (ma questa volta sta durando di più) di silenzio.
Uso i limiti. Alzo le barricate. Difendo la mia arte e la mia salute.
Niente facebook, twitter, you tube, istagram e notizie on line fino a sera. Imposto il cellulare sul “non disturbare” e disabilito le notifiche. Limito la mia presenza e disponibilità sul web al minimo indispensabile. La dieta è flessibile, e si adatta alle esigenze di ognuno.
Io mi collego soltanto mezz’ora al giorno, di solito dopo cena. Leggo qualche mail, controllo le notifiche, rispondo svogliatamente a qualche messaggio. Finita la mezz’ora, stacco la connessione e mi dedico ad altro.
Le persone che mi conoscono, in questi periodi di mia “assenza dal web” incrementano i messaggi allarmati: “che fine hai fatto”? “ci vediamo su skype”? “rispondimi appena puoi!” oppure “tutto bene”?
Ormai dal web passa la maggior parte del contatto sociale, e va bene, però a volte è troppo. E quando di una cosa, qualsiasi cosa, se ne ha in abbondanza, allora quella cosa perde di valore.
Perciò questa scelta mi aiuta anche a rendere merito alle cose importanti.
Riscopro il piacere di telefonare a un amico, sentirne la voce e approfondire un argomento. Di finire di leggere un romanzo in due giorni, fare un bagno lungo e uscire più spesso.
Raccolgo l’essenziale. Recupero concentrazione e voglia di fare. Le idee mi si schiariscono, riesco a udire di nuovo i miei pensieri.
Come al rientro dalle vacanze, in cui si è esagerato con il cibo perché “tanto sono in vacanza”, così questi periodi di depurazione dai social network e dalle notifiche sul cellulare e sul computer sono necessarie alla mia vita creativa.
Ma la dieta mediatica non basta.
Il silenzio che si produce dalla dieta mediatica non è privo di significato.
Sì, insomma: stare da soli non significa annoiarsi guardando fuori dalla finestra tutto il tempo. Significa fare spazio dentro di sé, per permettere alle cose più importanti di emergere in superficie. Fare silenzio tutt’intorno per permettere alla propria voce interiore di essere udita.
Per fare ciò, annoiarsi è il primo passo. Ma soltanto il primo.
Poi, serve qualcosa che aiuti a focalizzarsi su sé stessi.
Per me, è il diario.
A singhiozzi, ne tengo uno, dove scrivo qualsiasi cosa mi venga in mente.
Mi serve per rimettere a fuoco la direzione, ricordare a me stessa dove sto andando e perché, e soprattutto a riconnettermi con la parte di me più vera, che mi sostanzia. L’unica a me indispensabile.
Quando mi sento perduta, il diario è la mia àncora. Riparto da lì. E questo articolo è proprio il frutto di una manciata di riflessioni che ho scritto sul diario, a mano, in questi giorni.
Se provate la dieta mediatica anche voi fatemi sapere come procede, anche se qualcosa mi dice che andrà tutto bene.
La Gilda delle Mani Inchiostrate (o degli scrittori)
[Suggerimento musicale per la lettura: Ludovico Einaudi_Divenire]
“Appoggi piede contro piede, scudo a scudo
il cimiero al cimiero, l’elmo all’elmo,
s’accosti, petto contro petto, e lotti col nemico
brandendo l’elsa della spada o l’asta.”
Tirteo, guerriero spartano
Ho avuto una intuizione mentre lavavo i pavimenti. Mi accade spesso.
Non di lavare i pavimenti, ma di avere intuizioni nei momenti di fatica fisica, in barba agli asceti e ai mistici puri.
Questa intuizione, dicevo, è saltata fuori da un ricordo.
Mentre strizzavo lo straccio – chissà se esiste un collegamento – mi è tornata alla mente una bellissima intervista fatta ad Alan Moore[1] , nel dettaglio un piccolo passaggio, quello di quando dice – e lo riporto a parole mie, l’intervista completa la trovate qua – che gli scrittori che ci hanno preceduti formano tutti insieme, travalicando i limiti di spazio e di tempo, una sorta di famiglia, una comunità.
“Remember that this tradition is glorious and noble, remember all the men and women who have accomplished things before you. That is the company, that you are hoping to keep”
Una gilda, mi permetto di specificare io.
Non è la prima volta che ripenso a questo concetto. Mi è già capitato.
Soprattutto, mi torna in mente ogni volta che mi sento bloccata e il mio caro, vecchio Censore – di cui ho scritto qui – acquisisce forza, a discapito della mia scrittura.
In quei momenti, ripenso a questa “gilda”.
Rifletto sul fatto che in quel preciso istante, in questo preciso istante, ovunque nel mondo – al netto dei fusi orari, ça va sans dire – altre decine, centinaia, ma che dico: migliaia di scrittori sono seduti a una scrivania, a scrivere.
L’immagine mi strappa sempre, sempre, sempre un sorriso.
Con gli occhi della mente vedo Neil Gaiman che butta giù con la penna stilografica su uno dei soliti taccuini neri la sua prossima storia.
George R. R. Martin che si dispera davanti a un monitor bianco, lottando contro i suoi dubbi – come lui stesso ha affermato di fare, nonostante i suoi successi, nella parte finale di questo video dove intervista Stephen King. Lo stesso King che digita forsennatamente sulla tastiera del pc al suono della sua amata musica Metal, chiuso nel suo studiolo al secondo piano della sua villa nel Maine. O, senza andare lontano, i miei colleghi conosciuti durante il NaNoWriMo: Serena Bianca De Matteis, Ester Manzini e tanti altri alle prese con una nuova opera.
Tutti insieme, appassionatamente, compresi quelli che non ci sono più: Charles Dickens, Fëdor Dostoevskij, Louisa May Alcott, Jack Kerouac, Umberto Eco, Gabriel García Márquez, Virginia Woolf e ancora e ancora, e tutti quelli di cui, vivi o morti, non conosco il nome, che non hanno mai pubblicato o che scrivono in lingue a me incomprensibili.
Tutti lì, testa bassa, a infilare una parola dietro l’altra. A combattere, come scrive Steven Pressfield nel suo saggio “The War of Art”, come guerrieri questa vera e propria guerra, senza esclusione di colpi.
Una lotta che è insieme con se stessi e con il mondo esterno.
Una guerra contro i pregiudizi, gli errori, la mancanza di tempo, i rimpianti e i rimorsi, la scarsa autostima, le bollette, l’età, le aspettative altrui, il ritiro costante di un lavoro solitario; insomma: l’abisso arcano e doloroso che precede qualsiasi atto creativo, compreso il parto, il più antico, naturale e necessario di tutti.
Una lotta che diventa logorante nella seconda fase della prima stesura che io, mutuando un termine dall’Opera alchemica, chiamo Nigredo – e di cui ho scritto qui.
La scrittura è una questione di autostima.
Dubitare di se stessi, del proprio valore, delle proprie capacità, pensieri, sentimenti, non aiuta di certo l’atto di esprimersi.
A chi interesserà mai quello che ho dentro?
A chi importerà leggere questa storia che è venuta a me in modi inaspettati – e sacri, io credo – e che mi affanno così tanto a rendere leggibile?
Ci vuole molta forza di carattere per trovare la costanza di rimanere seduti, giorno dopo giorno, stagione dopo stagione, alla stessa sedia, nel disperato tentativo di rendere intelligibili le figure confuse che si accavallano senza tregua nel proprio animo.
Per cercare di rendere nella corrotta forma scritta la perfezione delle visioni che si intravedono, come labili barlumi, dentro di noi.
Io non so se scrittori si nasca o si diventi.
Credo che siano possibili entrambi gli scenari.
Alcuni lo sono naturalmente e, nati sotto una buona stella, seguono la corrente sulla quale si trovano scivolando con naturalezza e grazia tra le onde.
Altri decidono di esserlo e, malgrado condizioni avverse, lottano e combattono in mare aperto contro i marosi e le tempeste reggendo saldamente il timone.
Le due situazioni non si escludono nemmeno vicendevolmente e, per alcuni, le cose si intrecciano in forme originali e sempre diverse.
Per quanto possano trattare lo stesso genere, avere la stessa cifra, stile o carattere simili, due scrittori non si assomigliano più di quanto non lo facciano due fiocchi di neve.
Ognuno ha una storia propria, un percorso, un sogno, un obiettivo differenti.
In qualsiasi quantità siano mescolati questi ingredienti, e nonostante la varietà dei sapori e delle forme, una sola cosa è certa: tutti gli scrittori, indistintamente, hanno creduto, in un modo o nell’altro, nella propria visione, seguendola senza badare al prezzo da pagare, alla fatica, ai conflitti quotidiani o all’eremo volontario di questo lavoro solitario.
Aristotele diceva: “noi siamo quello che facciamo ripetutamente. Perciò l’eccellenza non è un’azione, ma un’abitudine”.
E se uno scrive tutti i giorni, pubblicato o meno, noto o meno, valevole – per la maggiore – o meno, allora è uno scrittore.
Quel qualcuno ha raccolto la sfida e, intrepido, ha inseguito quella visione come un cacciatore che insegue la sua preda dalla quale dipende la sua sopravvivenza.
Perciò mi rivolgo a chiunque legga questo articolo e si riconosca in queste parole, mentre scrolla verso il basso la pagina con le dita sporche di inchiostro, come le mie.
Sei nella mia squadra.
Chiunque tu sia, per qualsiasi ragione tu lo faccia – gioia, disperazione, sfida, necessità, divertimento, rivalsa, vocazione, impeto di follia e chi più ne ha più ne metta – voglio che tu sappia che ti comprendo dal profondo del mio cuore e che, nonostante il silenzio nel quale sei immerso – probabilmente proprio in questo stesso momento – e la solitudine che accompagna questo lavoro, non sei solo, perché io combatto accanto a te.
Tu e io, insieme ai fantasmi di coloro che ci hanno preceduti e a tutti gli altri scrittori viventi su questo meraviglioso e terribile pianeta che, giorno dopo giorno, stagione dopo stagione, combattono questa guerra.
Siamo la Gilda delle Mani Inchiostrate.
E siamo implacabili.
(Leggi la Promessa di una Mano Inchiostrata)
[1] : se vi piace Alan Moore, non perdete questa lunghissima e splendida intervista, sottotitolata in italiano
La prima stesura di un romanzo e L’ Opera al nero alchemica
[Suggerimento musicale per la lettura: The crow_soundtrack]
Questi primi, gelidi giorni di Dicembre mi si stanno snocciolando sul calendario uno dietro l’altro sotto l’egida del Corvo.
A dire il vero, è da ottobre che il Corvo mi si è appollaiato su una spalla, e mi gracchia nell’orecchio con quel suo verso così dolce.
Il punto è che, con mio grande disappunto, che temo dovrò sorbirmi il suo gracchiare per altri mesi. Forse per tutto l’inverno.
Ogni tanto mi piace trovare parallelismi tra quello che faccio e l’alchimia. Un’abitudine indegnamente mutuata da Jung (anch’egli sovente co-protagonista dei miei post) e dalla lettura entusiasta del suo Psicologia e alchimia[1].
In questo saggio lo psichiatra svizzero prova a spiegare come le fasi attraverso le quali avviene l’opus alchemicum corrispondano a quelle del “processo di individuazione”, cioè quel processo nel quale si prende consapevolezza della propria individualità e si scopre la propria vera essenza interiore.
Jung approfondì successivamente questa interessantissima tesi in Psicologia del transfert(1946), Saggi sull’alchimia (1948) e nel Mysterium Coniunctionis (1956).
Dicevo: ogni tanto mi capita di riconoscere concetti che collegano la scrittura a quella paccottiglia di conoscenze mistico-esoteriche che mi ritrovo, mio malgrado, in testa per aver divorato parecchi libercoli su tali argomenti. Spesso, di pessima qualità e dubbio contenuto, devo riconoscerlo, ma talvolta forieri di pietre focaie utili a far brillare qualche piccola, debole e fugace scintilla di intuizione.
Abitualmente, non dedico spazio scritto a queste mie congetture, che rimangono nel mondo iperuranico delle (mie) idee, ma di tanto in tanto ho fatto qualche strappo alla regola, come ad esempio in questo articolo sulle quattro parole del mago e la creazione artistica.
Così, dimostrando grande coerenza, strappo di nuovo la regola che mi sono data io stessa, e scrivo (poche righe, lo prometto), sui tre stadi in cui la “materia prima” (l’idea di una trama) mescolata a un cucc.no di zolfo, ½ l. di mercurio e un pizzico di sale, e riscaldata a fuoco vivace nella padella dell’atanor, si trasforma nella pagnotta filosofale.
E qualcuno si starà chiedendo, cosa diamine c’entra questo con la scrittura?
C’entra, c’entra.
Questi stadi (i principali sono tre) prendono il nome dal colore che la materia assume man mano che trasmuta.
All’inizio, quando la materia si dissolve, putrefacendosi, abbiamo La Nigredo (Opera al nero, rappresentata da un Corvo). Poi, la stessa passa alla fase successiva, in cui si purifica sublimandosi, chiamata Albedo (Opera al bianco, rappresentata da un Cigno), fino a quando non si ricompone e si fissa in una nuova struttura, migliore, che è la Rubedo (Opera al rosso, rappresentata da una Fenice).
Ora, io sfido qualsiasi scrittore a non raccontare la propria esperienza di scrittura e stesura di un romanzo che non passi da tutte e tre queste fasi.
Prima stesura.
Arriva un’idea, o un personaggio. Le/gli si appicciano sopra un paio di ostacoli, e si prova a immaginare come si può sviluppare/reagisce. Si abbozza una trama. Si iniziano a vomitare parole a caso, una dietro l’altra. E man mano che si procede, il personaggio prende vita, acquisisce spessore, vive di vita propria e sceglie cose che tu scrittore non hai previsto. Così, la struttura iniziale, si modifica. Spesso, dopo uno o due mesi di scrittura, i personaggi sembrano un po’ appassire. La trama non ci sembra più tanto coerente e, di pari passo, la nostra determinazione inizia a cedere. Sì, insomma, come scriveva Anton Čechov “Qualsiasi idiota può superare una crisi. È il quotidiano che ci logora”.
Continuare a scrivere nonostante le idee che si dissolvono e la nostra determinazione inizi a odorare di stantio, non è facile, e richiede una certa presenza di spirito. Le visioni che abbiamo in testa, che sembravano così brillanti o divertenti o drammatiche, sbiadiscono. Anzi, meglio: si dissolvono, putrefacendosi.
Eccola qui, l’Opera al Nero.
Eccola, la prima stesura di una trama, inizialmente lucidata a dovere e strutturata in un certo modo, che non ha proprio voglia di stare lì ferma e rigida, e si ribella stiracchiandosi e agitandosi.
Lo scrittore inesperto non lo aveva previsto e la sua volontà inizia a cedere sotto i colpi impietosi, ma ahimé inesorabili, della Nigredo.
Come dice Neil Gaiman: “Tutti sono capaci di iniziare un romanzo. Se sei uno scrittore, puoi anche finirlo”. È proprio a questo punto che, i più, abbandonano.
La nostra prima stesura muove i suoi traballanti passi sotto le ali del Corvo, tra i miasmi putrescenti della Nigredo.
Arrivare fino alla fine richiede qualità interiori sulle quali il buon Jung ha sprecato parecchi etti di carta.
Durante la revisione (seconda fase), il testo si sfoltisce. Si tagliano le parti noiose (si spera), si snelliscono i personaggi e si alleggeriscono le scene. Anche la sintassi perde le zavorre dei pensieri confusi della prima fase oscura. Si decide di riscrivere qualche parte (a volte interi capitoli) e di tagliare/aggiungere personaggi, dialoghi, o cambiare la voce narrante.
È l’Albedo. La revisione ha (o meglio, dovrebbe avere) il candore del Cigno.
E infine, ciò che si è deciso durante la purificazione della “materia prima” (la nostra storia, le nostre idee), viene fissato di nuovo, nella seconda stesura (ma facciamo anche nella terza, quarta, eccetera eccetera).
La trama si fissa, e ogni cosa trova il suo posto. L’idea iniziale non sembra così orrenda, con questo nuovo vestitino e il fiocco tra i capelli. Anzi: pare anche graziosa.
La seconda stesura è la Rubedo. La Fenice risorge dalle sue ceneri.
Sarà bello quel momento, ma non è oggi.
Oggi, ho il pennuto nero che mi artiglia la spalla e gracchia il suo verso stridulo dentro l’orecchio e dritto fino al cranio.
È in momenti come questi che fatico a non rinnegare la mia scelta etica vegetariana, resistendo per non mettergli le mani al collo e strozzarlo.
Non posso. È una fase obbligata e necessaria.
Devo soltanto resistere.
Giungerà il candido Cigno scivolando sulla pelle dell’acqua. Giungerà, con tutti i suoi problemi, le ansie da revisione e le insicurezze che si trascina dietro.
Oh, giungerà. Ma non è questo il giorno.
E dopo di lui, sorgerà la Fenice, con la sua disperata resistenza e il suo fulgore dorato striato di rosso.
Sorgerà, ma non è questo il giorno.
Uno dopo l’altro verranno a dare il cambio al Corvo.
E poi?
E poi niente, si ricomincia.
La Grande Opera non è nel risultato, ma soltanto nell’opus. Appunto.
E adesso scusate, ma devo proprio lasciarvi. Devo dar da mangiare al pennuto: un migliaio di parole almeno, o non la smetterà più di gracchiare.
[1] Jung Carl G, Psicologia e alchimia, Bollati Boringhieri (2006, XIV-552 p., ill., brossura)